L’UOMO BIOFONICO
Chitarrista, compositore e pioniere dei sintetizzatori analogici Bernie Krause uscì dallo studio di registrazione alla ricerca di suoni naturali. Quello che scoprì era molto più profondo.
di Jay Babcock (articolo originale su Arthur magazine)
Illustrazione di Kevin Hooyman
“…Ogni essere umano sarà plasmato con canzoni, musica e tutte quelle cose che hanno a che fare con la natura”- Edgar Cayce psichiatra americano del 20° secolo, da “letture di una vita” dato a Bernie Krause quando aveva appena sei settimane di vita, come riportato da Krause in Notes from the Wild (Ellipsis Arts, 1996)
Chi meglio di Bernie Krause è adatto ad esplorare il più grande interrogativo sulla musica e cioè: cos’è, a cosa serve, perché ci piace, da dove proviene, perché suona come suona?
Controlliamone la biografia. Nato nel 1938, Krause crebbe come violinista prodigio, vista scarsa, in una Detroit post-II guerra mondiale. Durante l’adolescenza si convertì alla chitarra guadagnando soldi extra come turnista alla Motown. Nel 1963, prese il posto di Peter Seeger nella band di folk americano moderno The Weavers, per i quali fu l’anno finale di performance. Dopo quell’esperienza migrò ad ovest per studiare al Mills College, dove i compositori avanguardisti Stockhausen e Pauline Oliveros erano insegnanti di ruolo. Presto incontrò musicisti jazz e sopratutto un creativo tastierista, tra i primi a suonare sintetizzatori analogici, Paul Beaver, che introdusse il Moog nella musica pop psichedelica. Formarono Beaver&Krause, una collaborazione artistica che produsse una sequenza di album elettro-acustici assolutamente inclassificabili, inoltre lavorarono in studio con avventurosi musicisti pop (The Doors, George Harrison, Stevie Wonder, ecc.) e composero e registrarono per raffinati progetti Televisivi e Cinematografici (The Twilight Zone, Rosemary’s Baby, Performance, ecc.). Dopo la morte improvvisa di Beaver nel 1975, Krause inizio a focalizzare la sua attenzione sul field recording di paesaggi sonori naturali.
Non fu un grande salto di qualità. Nei tardi anni 60, ispirati da un’idea del loro amico Van Dyke Parks, Beaver e Krause iniziarono le loro prime registrazioni di suoni in outdoor da usare nel loro album eco-musicale In a Wild Sanctuary. Fu allora che Krause inizio a seguire questo percorso sempre più intensamente, viaggiando negli angoli più remoti della terra, innovando la tecnica e usando sempre le più moderne tecnologie per catturare in maniera sempre più accurata i suoni rimasti sulla terra, luogo in cui la natura selvaggia sparisce sempre più rapidamente.
Quello che Krause scoprì in quei luoghi, il modo in cui lo compara a quello che sperimentiamo quotidianamente nel mondo non-selvaggio, è il tema del suo ultimo libro The Great Animal Orchestra: Finding the Origins of Music in the World’s Wild Places (La grande orchestra animale: Ricerca delle origini della musica nei luoghi selvaggi del mondo) pubblicato lo scorso anno. Scrivendo con una precisione scientifica, con una poetica meraviglia del vero artista e con una persistente indignazione tipica delle essere umano, Krause organizza in maniera sorprendente appunti presi in decenni di field recording. (Le alci nell’america occidentale vivono nel riverbero; il suono del mais che cresce è uno “staccato” di click e squittii…come sfregare un dito asciutto su un palloncino; le formiche cantano sfregando le zampe sul proprio addome; la rana Coro del Pacifico ha le dimensioni di un’unghia ma può essere udita a diverse centinaia di metri di distanza; Si può stabilire la temperatura contando il numero di trilli che emettono alcuni grilli;) Inoltre intreccia una serie di argomenti sulle grandi questioni circa la musica che abbiamo citato sopra.
Una delle sue tesi è che il suono degli animali in un ecosistema sano è organizzato, una sorta di proto-orchestra. Partendo da ciò quello che segue è l’argomento che da il titolo al libro: la nostra musica deriva dai primi uomini che imitavano i suoni del panorama aurale in cui erano immersi – “abbiamo trasformato il ritmo e il movimento del suono della natura in musica e danza… Le nostre canzoni emulano il tubare, il battere, lo strombazzare, la polifonia e la complessa ritmica che producono gli animali all’interno del loro habitat. Abbiamo sviluppato la nostra musica non semplicemente imitando un comune potoo, uccello che canta la scala pentatonica, ma anche mimando altri suoni naturali: in uno dei passaggi più belli del libro, Krause ricorda come il suono del vento che soffia sulle canne di bambù rotte, sul Lago Wallowa nel nord-est dell’Oregon, sia molto simile al suono dell’organo da chiesa. “Ora sai da dove abbiamo preso la nostra musica”, gli disse un’anziano della tribù Nez Perce, “ed è li che, anche voi, avete preso la vostra”.
Questa primavera ho intervistato l’entità Bernie Krause tramite il-non-proprio-ideale telefono. Comunque. Quello che segue è un sunto delle nostre conversazioni redatto da me ed editato da Bernie tramite successive email con l’aggiunta di alcune riflessioni.
A: Sembra che tu abbia scoperto il motivo per il quale agli uomini piace la musica. Quello che hai scoperto grazie al tuo lavoro è che la musica in qualche modo replica l’esperienza primordiale degli uomini nella natura selvatica, che è l’esperienza di essere inclusi in un panorama sonoro prodotto esclusivamente dagli animali e dalla terra stessa. Forse quando ascoltiamo la musica, cioè suoni organizzati, in una certa maniera essa ci riporta a quell’esperienza atavica e magari e proprio per questo che ci piace tanto. Sto forse esagerando quello che intendi?
Bernie Krause: Quando ci stavamo evolvendo nel Pleistocene, vivevamo vicini alla natura, completamenti integrati nei nostri habitat, parte di quell’equazione era la voce del mondo naturale. Questa si è radicata in noi a tal punto che, per trovare una completa coesione con l’ambiente, abbiamo iniziato ad imitare i suoni che ascoltavamo. Ma lo abbiamo fatto seguendo integralmente l’organizzazione del panorama sonoro che consiste di ritmo, melodia e organizzazione complessa.
Paul Shepard scrisse un libro intitolato Tornando a casa nel Pleistocene in esso aveva postulato che non possiamo tornare indietro perché non avevamo mai lasciato il Pleistocene. Pensiamo di esserci evoluti grazie alla nostra tecnologia e alla nostra cultura. Ma non è così. Seppellito in fondo al nostro DNA esiste quella connessione al mondo naturale che come società abbiamo accantonato – specialmente in occidente. Quando vivevamo immersi nella natura, imparammo a comunicare con essa allo stesso livello e come esseri uguali ad essa. Pensavamo a noi stessi come se fossimo la natura in quel dato momento. Abbiamo iniziato a imitare i suoni per essere sincronizzati con essa. Quell’imitazione – quella cosa strutturata che noi etichettiamo come “musica” – era qualcosa che abbiamo “semplicemente fatto”. Questo è il modo in cui abbiamo iniziato ad apprendere come esprimere noi stessi in maniera acustica. E lo abbiamo fatto senza nessun tipo di necessità, solo per rimanere fisicamente in equilibrio con il resto del mondo.
Il momento in cui ti si è rivelato il fatto che i suoni del mondo naturale non sono una cacofonia disorganizzata, ma una proto-orchestra, è successo in Kenia nel 1983. Cosa stavi facendo lì?
Ero stato incaricato dalla California Academy of Sciences di San Francisco per registrare non solo la biofonia – i suoni collettivi generati da tutti gli esseri viventi in particolari habitat e in un dato momento – ma anche le singole specie. Una notte ero molto stanco e non ero proprio in uno stato di piena coscienza. Mi sono infilato nel sacco a pelo con le cuffie ancora in testa e la registrazione ancora attiva. Ad un tratto fui molto colpito da quello che ascoltavo, sembrava tutto piuttosto musicale se messo in relazione larghezza della banda acustica e alla maniera in cui era espressa. Non ero sicuro di come fosse strutturata o di cosa significasse. Ritornato a San Francisco nel mio laboratorio avevo un rudimentale software che mi permetteva di vedere lo spettrogramma su Mac. Uno spettrogramma è un’illustrazione grafica del suono con il tempo rappresentato sull’asse X e le frequenze – dalle basse alle alte – sull’asse Y. Lanciai uno spettrogramma e, abbastanza sicuro, notai che gli insetti stavano in una porzione dello spettro, gli uccelli in un’altro, le rane in un’altro e i mammiferi in un’altro ancora, ognuno stava fuori dalla zona dell’altro in maniera che il proprio verso potesse essere udito in maniera chiara e senza impedimenti. Tutto era strutturato. Era stata quella caratteristica a catturare la mia attenzione. Il suono era strutturato e, se abbiamo imparato qualcosa dalla voce del mondo naturale, quella caratteristica è un segno di come deve essere successo.
Quello che ho scoperto successivamente era l’idea che la biofonia fosse una sorta di orchestra animale che aveva luogo in ogni ecosistema sano del pianeta. Ciò è il motivo per cui ogni habitat ha la propria voce, il proprio output acustico che definisce i parametri sonici della fauna, cosicché ogni voce si evolve alla ricerca della propria banda di frequenza o del proprio momento temporale. Negli ecosistemi sani si ha sempre un’indicazione geografica in base alla voce del luogo in un dato momento del giorno o della notte o in base alla stagione. E’ come una sorta di lingua distinta, in un certo senso, un forte accento locale. Ogni bioma, marino o terrestre ha la sua firma distintiva. Non è una figata?!
Parli di come l’uomo ha tratto ispirazione dai suoni naturali per creare i propri suoni.
La musica è semplicistica se messa in relazione ai panorami sonori che ho in archivio. Vorrei suggerire che più si è vicini al mondo naturale nella propria quotidianità, più la propria musica ne riflette la complessità, il range di espressione e la dinamica. Sono rimasto molto sorpreso di come anche i più elaborati arrangiamenti musicali in occidente non si possono neanche comparare in quel senso. Per fortuna, ci sono ancora quei fortunati che vivono sotto la luce di quella ispirazione.
Come il popolo Ba’Aka della foresta pluviale di Dzanga-Sangha in Africa, registrati da Louis Sarno nella metà degli anni 80. Tu sei stato coinvolto nel suo lavoro.
Lessi un’articolo su Louis su Time o Newsweek, e così ho scoperto che giravamo attorno allo stesso tipo di idee. Quando riuscimmo a metterci in contatto capimmo che stavamo percorrendo la stessa linea. Solo che lui era molto più avanti di me con la ricerca sulle convergenze tra la biofonia e l’esperienza musicale. Volevo solo conferme sulle nostre mutue osservazioni. Eravamo abbastanza sicuri di quello che pensavamo e di quello che ascoltavamo. In seguito abbiamo realizzato splendide lavorazioni insieme – culminate in un libro e in un paio di album. Ho anche archiviato molte sue registrazioni mai rilasciate.
Cosa della ricerca di Louis ti ha intrigato di più?
Il link tra la musica dei Ba’aka e il panorama sonoro della foresta. Usano la biofonia come un orchestra karaoke naturale e ci suonano sopra il loro repertorio musicale. Louis ha essenzialmente confermato quello che io immaginavo accadesse: la musica che suonavano aveva una relazione diretta con i suoni del mondo naturale che li circondava.
La musica è più complessa e piena di sfumature se è più vicina al mondo naturale?
Non esattamente. Quello che intendo è che la musica occidentale è come un serpente che ingoia la propria coda. E molto solipsistica. Ci ispiriamo alle nostre personali risorse, molto spesso auto-referenziali, raramente cerchiamo di arricchirci con le muse della natura che, a mio modo di vedere, sono molto più avvincenti. Oggi abbiamo un’impellenza filosofica nell’espressione musicale che è quella di imitare noi stessi invece che trarre ispirazione dal mondo naturale. Giriamo intorno alle nostre stesse creazioni, cerchiamo nuove ispirazioni dove non ci sono, dimenticando le riserve più eccitanti che abbiamo a disposizione.
Hai cominciato a registrare il suono dell’intero habitat negli anni 60. Avevi già realizzato cosa stavi catturando.
Allora, quando ho iniziato a registrare i suoni naturali, la modalità tipica di registrazione era limitata alla cattura frammentaria dei singoli versi delle singole specie. Per lo più uccelli. Più tardi rane e mammiferi. Ci sono enormi collezioni caratterizzate da quel modello di astrazione e frammentazione del mondo naturale. Secondo me è un modo di fare presuntuoso. L’esempio perfetto di questa de-costruzione acustica del mondo naturale si ritrova nella collezione della Cornell University o nella British Library of Wildlife Sounds. Per come la vedo io questo protocollo è un po come voler capire la magnificenza della Quinta sinfonia di Beethoven estraendo il suono di un singolo violino e mettendolo fuori dal contesto orchestrale. Se si vuole capire la composizione bisogna ascoltare l’intera orchestra. Così sono tornato sul campo, e con quel nuovo modello in mente, ho iniziato a registrare l’intero panorama sonoro, non avendo la benché minima idea di quello che ne sarebbe saltato fuori. Era il 1968. Col passare del tempo, tra la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni 90, ho cominciato a scoprire informazioni in quelle biofonie che precedentemente non erano state esaminate. Per esempio, il modello che ho creato permette di capire come un’habitat sano si esprime acusticamente. Ancora più importante, si scopre il modo in cui si svolge l’interrelazione dell’uomo con gli Altri elementi naturali. Intendo l’effetto che abbiamo sulla la biofonia attraverso l’imposizione del rumore che generiamo e l’impatto dell’estrazione delle risorse naturali, la trasformazione delle terre, l’inquinamento e il surriscaldamento globale. Tutti problemi.
Hai detto che oggi ci vuole molto più tempo per riuscire a ricavare registrazioni da poter riutilizzare.
Quando ho iniziato a fare field recording 45 anni fa, potevo registrare 10 ore di materiale e catturare un’ora di materiale utile, buono abbastanza per un’album, la sound track di un film o un’installazione museale. Ora, per via del surriscaldamento, il rumore umano e l’attività estrattiva, oltre a tanti altri fattori, ci vogliono fino a 1000 ore di registrazione per ottenere quei risultati.
Assistere a questa cosa decennio dopo decennio…Come riesci a gestire tutto ciò senza esserne scoraggiato?
Chi ha detto che non sono scoraggiato? E’ un corollario….Ho 4.500 ore di registrazioni di panorami sonori terrestri e marini e 15.000 specie animali. Il mio archivio è raro perché oltre il 50% proviene da luoghi talmente tanto radicalmente alterati che sono quasi tutti silenti o non possono in qualche modo essere ascoltati nella loro forma originaria. E questo in soli 45 anni. Quindi se il 50% del mio archivio non è più udibile in natura, questo da la misura della devastazione. Bisogna iniziare a fare riflessioni serie per smorzare questo andamento.
Cosa deve essere fatto? Più parchi naturali? Trust sulle terre? Corridoi naturalistici?
Credo che dei trust sulle terre siano molto importanti, almeno fino a quando non recupereremo il danno sconsiderato che è già stato fatto. A volte, non ostante le buone intenzioni, facciamo più danni quando cerchiamo di ripulire, bisognerebbe lasciare che il processo naturale di recupero faccia il suo corso. Politiche neutrali potrebbero avere successi migliori rispetto a ciò che potremmo progettare razionalmente.
Esistono posti nell’America del nord in cui le persone possano fare esperienza di habitat sani?
Ci sono posti diversi come Adirondacks, il deserto Americano a sud ovest, Rockies e anche l’America del sud est. E ci sono momenti anche nei nostri giardini. Io e mia moglie viviamo in una zona rurale nella California del nord dove con 90 minuti di macchina si raggiungono posti, in cui in alcuni momenti del giorno si può registrare fino ad un’ora di materiale senza sentire un’aereo o un’altro tipo di veicolo. Molti di questi posti sono fiorenti ed acusticamente interessanti
Ci sono momenti di relativa calme e tranquillità anche in posti urbani densamente strutturati in cui si può registrare senza che si senta il passaggio di una moto o di un’aereo a reazione. Bisogna avere cura del proprio ambiente acustico. C’è un posto a 20 minuti da casa mia che ho registrato ogni anno negli ultimi 20 anni. Sono sempre alla ricerca di posti sufficientemente tranquilli dove poter registrare. E’ per fortuna esistono.
Puoi parlarci del tuo lavoro con gli scolari?
Visto che quello che dico è particolarmente intuitivo, non devo veicolare un messaggio in maniera particolare, ne ai giovani, ne agli anziani. Afferrano il discorso quasi sempre nella maniera giusta. La cosa vera è che i bambini non hanno le stesse resistenze degli adulti nei confronti delle idee, assorbono i concetti e li elaborano in maniera differente…senza cinismo. Iniziano a capire immediatamente quale è il lavoro che deve essere fatto e quello che ne traggono facendolo. Mentre noi adulti, che abbiamo la presunzione di conoscere molte cose, siamo più esposti ai pregiudizi, ci vuole più tempo e più energia perché queste idee vengano elaborate in maniera da poterne trarre beneficio.
Quando lavoro con i bambini, chiedo loro di scoprire una particolare sonorità, chiedo di localizzare il canto di un singolo uccello. Con registratori economici gli chiedo di di registrare un pettirosso. Questo è tutto. Così escono, cercano un pettirosso tra gli alberi e mirano verso l’uccello. Poi tornano e mi portano la registrazione. Li incoraggio sempre positivamente. Ma poi gli faccio notare che c’è anche una gran bella ripresa di un’autobus, un camion della spazzatura, un soffiatore di foglie o una motocicletta. C’è un’elicottero che vola. Da qualche parte nello sfondo si sente il debole suono del pettirosso. Cerco di persuaderli, dico loro di non arrendersi e ti tornare a provare. In genere è in quel momento di frustrazione che realizzano la connessione tra l’inquinamento acustico che ci circonda e la mancata realizzazione del loro obbiettivo. Esatto! Come fare per trovare un luogo e un momento in cui il pettirosso canta senza che ci sia troppo rumore intorno? Iniziano a pensare al problema. E’ il problema diventa una questione personale per loro. Quando ciò accade, si riesce a creare qualcosa che diventerà molto importante nella loro vita.
Alcune volte ricevo strane domande alla fine delle mie presentazioni, come un ragazzo che alzo la mano e mi chiese quale era l’animale più pericoloso che avessi mai registrato. Senza perdere un colpo risposi “l’uomo”. “Ma” – diventando rosso in faccia e pronto al confronto – “mio padre dice che l’orso polare è l’animale più pericoloso”. Aspettai un momento per far sedimentare le sue parole e risposi “chiedi a tuo padre se ha mai visto un’orso polare con un AK47 tra le zampe”.
Dopo che hanno sperimentato ciò, trovano una vocazione per la natura?
Assolutamente. Se si vuole creare un cambiamento di attitudine, bisogna indirizzare chi impara a scoprire le risposte da soli e a modo loro. Bisogna portarli in luoghi dove qualcosa di valore entra nelle loro orecchie, qualcosa di diverso da un sacco di rumore incoerente. La registrazione dei paesaggi sonori è un’importante utilizzo della tecnologia e aiuta a farci realizzare il beneficio che può apportare il suono naturale che ci circonda.
Ottimi registratori possono essere acquistati a meno di 200 dollari. 15 anni fa per avere la stessa qualità si sarebbero spesi 10.000 o 12.000$. L’accesso ad attrezzatura di qualità per un prezzo modesto ha fatto la differenza. La cosa è sfociata in un’esplosione di quelli che chiamano “citizen-science” – persone che escono e cercano di registrare i suoni della natura. E scoprono quelli che sono i piaceri e i problemi in questa attività.
Nel tuo libro hai scritto: “Il mondo naturale allo stato selvatico è essenziale per la nostra salute spirituale e psicologica – una sorgente di sapienza che non si può acquisire dagli altri aspetti della vita moderna…Certi suoni, come il respiro, i passi, il battito cardiaco, il suono degli uccelli, i grilli, lo sciabordio delle onde o lo scorrere dell’acqua, stimolano il nostro sistema limbico e fanno si che vengano rilasciate endorfine con la conseguente sensazione di serenità…una condizione fondamentale per la salute dell’organismo, una condizione essenziale per sentirsi fisicamente e mentalmente vigorosi. Ci permettono di pensare con chiarezza.” Veramente non ci stanno alternative?
I paesaggi sonori naturali sono come intrinsechi e legati al nostro DNA. Quell’esperienza di sonorità naturale, sia che si tratti di onde sulla battigia, di vento tra le foglie o di qualsiasi altro suono creato da un mondo sonico, sono tutte parti di un mondo che abbiamo dovuto attraversare sin da quando abbiamo cominciato ad emergere dal Pleistocene. Uno dei motivi per cui ci rechiamo in luoghi di vacanza è legato al nostro istinto primordiale di andare in luoghi tranquilli dove cercare relax. Quei luoghi tranquilli, quelli che agiscono sul sistema limbico, sono posti come la riva del mare, o una lussureggiante foresta, o un ruscello tra i monti o il deserto, dipende a cosa siamo legati e a come rispondiamo a certi stimoli. Siamo inevitabilmente attratti da posti del genere. In ogni caso siccome ci sentiamo terribilmente insicuri rispetto alla vita che ci circonda, portiamo con noi tutto l’equipaggiamento della nostra cultura, come iPod o iPad e altri generatori di rumore per lasciare fuori tutto quello che ci ha attirato in quei luoghi – perché spendiamo soldi e tempo così? Andiamo in resort sulla spiaggia e c’è Musica! Questa terribile musica è convogliata ovunque, nei ristoranti, negli ascensori, nei corridoi, tutto ciò per farci sentire rassicurati. Per me è orrendo! Se sento quel tipo di cose in un ristorante o in un’altro posto pubblico, scappo il più velocemente possibile. Non riesco a rimanerci. Andare in una riserva naturale con una moto smarmittata è folle dal mio punto di vista, non solo si disturba la vita delle creature, ma anche quella dei visitatori.
Sai, le nostre orecchie ci dicono che il sussurro di ogni singola foglia e di ogni singola creatura parla alle nostra parte naturale e, forse, contiene il segreto per l’amore di tutte le cose, specialmente la nostra umanità.
Jay Babcock e Bernie Krause
Traduzione Mirko Perri